La Conferenza di Glasgow delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, nota anche come COP26, si è conclusa a novembre con la firma del Patto di Glasgow per il clima (GCP), un accordo sottoscritto da 200 nazioni che potrebbe accelerare l’azione per il clima e favorire sostanziali riduzioni delle emissioni di carbonio.

Il problema è che alla base di questi impegni ambiziosi non c’è necessariamente un meccanismo di applicazione sufficientemente vigoroso. Questo significa che gli investitori giocheranno un ruolo fondamentale nel monitorare i progressi compiuti da governi e imprese in relazione alle promesse fatte, chiamandoli a rispondere del loro operato attraverso un engagement attivo.

Dalla COP26 emerge una forte spinta all’azione per il clima

Iniziamo con la buona notizia: a ogni conferenza internazionale sul clima il senso di urgenza, unità e impegno manifestato dai paesi partecipanti è progressivamente aumentato. Pertanto, il GCP rappresenta la dichiarazione in materia di politica climatica più ambiziosa di sempre.

Alla COP26 si è registrata anche una maggiore collaborazione rispetto ai summit precedenti. Per la prima volta i paesi hanno riconosciuto inequivocabilmente le principali conclusioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che hanno costituito l’introduzione al GCP (fino alla COP24, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita avevano respinto le conclusioni dell’IPCC sui cambiamenti climatici).

Inoltre, la COP26 ha lanciato diverse importanti iniziative per affrontare il problema delle emissioni di gas serra e accelerare la transizione energetica. Queste iniziative potrebbero tradursi nel 2022 in un aumento dei Contributi determinati a livello nazionale (NDC), che dovrebbe consentire di fare un passo avanti verso l’obiettivo degli 1,5 °C.

Sul fronte delle emissioni, più di 100 paesi hanno aderito a una coalizione guidata dagli Stati Uniti e dall’Unione europea (UE) che si propone di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Questa iniziativa è in linea con le raccomandazioni pubblicate dall’IPCC nel suo Sesto rapporto di valutazione (AR6) in quanto costituisce un percorso per abbattere efficacemente le emissioni di gas serra nel breve termine. Secondo l’IPCC, il metano è responsabile di circa la metà dell’aumento di 1,0 °C della temperatura media globale registrato a partire dall’era preindustriale.

Tra gli altri sviluppi salienti della COP26 segnaliamo:

  • Un rinnovato impegno a ridurre l’uso del carbone, anche se smorzato dall’enfasi posta sulla graduale diminuzione, anziché eliminazione, dell’elettricità generata da questo combustibile. Il carbone è responsabile del 46% delle emissioni globali di biossido di carbonio e rappresenta quasi tre quarti delle emissioni di gas serra derivanti dalla produzione di elettricità.
  • Un accordo per la creazione di un nuovo mercato del carbonio e di un meccanismo di negoziazione delle compensazioni, comprendente un sistema bilaterale per lo scambio di crediti di carbonio attraverso il quale i paesi possono realizzare gli obiettivi di decarbonizzazione, e un sistema centralizzato per le compensazioni, con la destinazione del 5% dei proventi a un fondo di adattamento climatico per i paesi in via di sviluppo.
  • Un nuovo impegno dei paesi sviluppati a versare almeno 100 miliardi di dollari all’anno per il finanziamento della transizione climatica delle economie emergenti. C’è da notare che questo obiettivo non è stato mai raggiunto da quando è stato concordato alla COP15 nel 2009.
  • Il varo della “Breakthrough Agenda”, un piano decennale volto a rendere economicamente più accessibili entro il 2030 le tecnologie e le soluzioni “pulite” per l’energia, i trasporti su gomma, la siderurgia, l’idrogeno e l’agricoltura.
  • Approvazione della Glasgow Leaders’ Declaration on Forest and Land Use (Dichiarazione di Glasgow sull’uso delle foreste e del suolo) da parte di 120 paesi che rappresentano oltre il 90% delle foreste mondiali. Questa dichiarazione mira a fermare e ad invertire la deforestazione e il degrado del suolo entro il 2030.
  • L’impegno di oltre 100 governi, autorità regionali e imprese a vendere solo veicoli a zero emissioni nei principali mercati entro il 2035 e in tutto il mondo entro il 2040. L’accordo manca tuttavia del sostegno di molti dei più grandi mercati automobilistici, tra cui Cina, Germania, Francia e di gran parte degli Stati Uniti. Quattro delle maggiori case automobilistiche mondiali – Toyota, Renault, Hyundai e Volkswagen – non hanno firmato.

Gli impegni non bastano

Gli accordi e gli impegni scaturiti dalla COP26 sono encomiabili ma insufficienti. Innanzitutto, gli impegni a ridurre le emissioni di carbonio entro il 2030, assunti da molti paesi, sono nettamente inferiori ai livelli necessari per realizzare l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C come stabilito nell’Accordo di Parigi del 2015. Gli impegni presi in vista del 2030 si traducono invece in un innalzamento delle temperature di 2,3 °C, mettendo a rischio il clima globale, in particolare per quanto concerne il rapido aumento del livello dei mari e gli eventi meteorologici estremi. Secondo il World Resources Institute, “per scongiurare i peggiori impatti dei cambiamenti climatici bisogna dimezzare le emissioni globali entro il 2030.”

Inoltre, persistono enormi divari tra gli impegni climatici più ambiziosi assunti a livello nazionale e le misure politiche concrete necessarie per realizzarli. Ad esempio, i governi non hanno spiegato chiaramente come prevedono di raggiungere i loro obiettivi di azzeramento delle emissioni nette, fissati in genere per il 2050-2060, che promettono di portare le proiezioni sul riscaldamento globale più vicino a 1,8 °C.

In che modo dunque le autorità politiche intendono ovviare al divario tra i loro deboli impegni per il 2030 e le loro ambizioni “net zero”? Difficile a dirsi. Questa incertezza ha creato un grave vuoto di credibilità che per essere colmato richiederà una profonda collaborazione tra le molte parti interessate.

I grandi inquinatori devono guidare la transizione dai combustibili fossili ad altre fonti di energia

Gran parte della responsabilità di colmare questo vuoto risiede nei settori dei trasporti, delle utility e dell’energia, che sono tra i maggiori inquinatori in termini di emissioni. Tuttavia, queste responsabilità sono tra loro interconnesse. Ad esempio, la capacità del settore dell’auto di contribuire ad abbattere le emissioni di carbonio dipende dal ritmo al quale le utility passeranno alle energie rinnovabili. Dopotutto, il beneficio di guidare un’auto elettrica è limitato se le batterie sono caricate con elettricità generata dal carbone.

Alla COP26, alcuni leader mondiali hanno spinto per la graduale riduzione dell’uso di elettricità prodotta da carbone senza riduzione delle emissioni. Questa transizione è già in atto, in particolare tra le utility europee. Pur essendo un po’ indietro rispetto alle utility regolamentate, anche i produttori di elettricità indipendenti non soggetti a regolamentazione stanno lavorando alla transizione dal carbone al gas e alle strutture di stoccaggio a batteria. Nell’UE la maggior parte delle utility ha già abbandonato il carbone o lo farà entro il 2030, dato il piano dell’Unione di fare dell’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Questo piano non include la Polonia e la Repubblica Ceca, due dei tre paesi europei con la maggiore capacità alimentata a carbone.

La maggior parte delle utility regolamentate negli Stati Uniti ha già in programma di smantellare le (più costose) centrali a carbone e di costruire capacità nelle rinnovabili (dove si prevede una base tariffaria più elevata). In breve, queste aziende sono generalmente disposte a chiudere gli impianti a carbone. La domanda è: quanto velocemente lo faranno? La tempistica della transizione è determinata in collaborazione con le autorità di regolamentazione statali, che devono considerare l’affidabilità della rete, la sua capacità di sostenere l’infrastruttura dei veicoli elettrici e l’occupazione generata dalle centrali a carbone a livello regionale. Ciò nonostante, il 75% della capacità di generazione a carbone degli Stati Uniti sarà probabilmente smantellato entro il 2050.

Come nel caso delle utility, le società di prospezione e produzione in Europa stanno facendo da apripista a livello globale, fissando obiettivi di riduzione delle emissioni ambiziosi e scientificamente fondati e destinando una quota significativa dei loro investimenti a progetti a basse emissioni nel campo delle rinnovabili. Le loro omologhe statunitensi hanno optato per un approccio disciplinato alla produzione di combustibili fossili e ridotto gli investimenti nelle nuove perforazioni. I budget di spesa in conto capitale comprendono sempre più spesso investimenti a basso contenuto di carbonio, come i biocarburanti, le rinnovabili a idrogeno e le compensazioni basate su sistemi naturali.

Ambiti in cui gli investitori possono fare la differenza

Viste le crescenti pressioni a investire in progetti verdi, prevediamo che il mercato dei green bond e delle obbligazioni collegate a indicatori chiave di performance (KPI) continuerà a crescere per dimensioni e importanza. Le etichette però non bastano. Per valutare correttamente le obbligazioni collegate a KPI, ad esempio, gli investitori devono capire come le imprese fissano e realizzano gli obiettivi di sostenibilità che si traducono nella riduzione delle emissioni lungo l’intera catena del valore. La futura standardizzazione globale delle informative ambientali, sociali e di governance (ESG) a cura dell’International Sustainability Standards Board favorirà una maggiore trasparenza.

Al contempo, gli investitori responsabili devono appurare se una determinata azienda ha adottato una strategia climatica specifica e attuabile; valutare il suo percorso di riduzione delle emissioni rispetto ai concorrenti; stabilire se i suoi piani sono sufficientemente ambiziosi rispetto al livello iniziale delle emissioni; accertare se il suo obiettivo “net zero” è scientificamente fondato e allineato con gli NDC; e determinare se la ripartizione del piano di azzeramento delle emissioni tra breve (2030) e lungo termine (2050) è coerente con gli NDC.

Infine, gli investitori attivi possono – e dovrebbero – giocare un ruolo chiave nell’azione per il clima, monitorando imprese e paesi per assicurarsi che siano ben avviati a realizzare i loro ambiziosi obiettivi climatici. Spesso questo richiede un dialogo costante con il team manageriale di un’impresa allo scopo di comprendere l’impatto dei fattori ESG sugli investimenti, sollecitare cambiamenti nei comportamenti e nelle pratiche aziendali e chiamare le imprese a rispondere del loro ruolo di amministratori responsabili dell’ambiente.

Susan Hutman è Director of Investment-Grade Corporate Credit Research e Markus Schneider è Senior Economist—EEMEA presso AllianceBernstein (AB).

Le opinioni espresse nel presente documento non costituiscono una ricerca, una consulenza d’investimento o una raccomandazione di acquisto o di vendita e non esprimono necessariamente le opinioni di tutti i team di gestione di portafoglio di AB. Le opinioni sono soggette a modifiche nel tempo.

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