Il periodo natalizio è alle porte. I consumatori statunitensi si riverseranno nei centri commerciali o i templi dello shopping sono definitivamente passati di moda? Il dibattito sul declino del settore retail si gioca tutto su uno specifico indice obbligazionario:.

il CMBX.6, che prende a riferimento 25 commercial mortgage-backed securities (CMBS) emessi negli Stati Uniti nel 2012 e caratterizzati da una significativa esposizione ai prestiti del settore retail, tra cui finanziamenti connessi ai centri commerciali della regione. La profezia della fine dei centri commerciali ha indotto molti investitori ad assumere posizioni corte sul CMBX.6. A nostro avviso, questa profezia è troppo severa e semplicistica.

Lo scenario che intravediamo è invece molto più complesso e sfumato. La nostra ricerca fondamentale rivela un settore in continuo cambiamento, con molti centri commerciali sull’orlo del fallimento e altri che investono e si evolvono per tenere il passo con le mutevoli preferenze de consumatori.

Per una migliore analisi sul futuro dei centri dello shopping statunitensi dobbiamo cominciare dalla loro storia.

Breve storia di un grande settore

I centri commerciali regionali, interamente al coperto e dotati di grandi magazzini, risalgono al 1956, anno in cui fu costruito il Southdale Center di Edina, Minnesota. Con la nascita dei diversi quartieri, il format negli Stati Uniti si diffuse a macchia d’olio. Nel corso degli anni ‘50 e ‘60, centri commerciali di ogni fascia di prezzo spuntarono ovunque vi fossero solide dinamiche demografiche e redditi familiari abbastanza elevati da sostenerli. I centri commerciali di “classe A”, più redditizi e con prodotti in media più cari, richiamavano le famiglie benestanti; la clientela di consumatori di classe media, più numerosa, contribuiva invece ad alimentare gli introiti dei centri commerciali di “classe B”.

Lo sviluppo dei centri commerciale rallentò durante la fase di debolezza economica degli anni ‘70, ma registrò una nuova accelerazione negli anni ‘80 e ‘90 sotto la spinta di una crescita sostenuta dei redditi reali, del boom tecnologico e della conseguente domanda di marchi di abbigliamento e lifestyle. Le società di private equity, che rilevavano ed espandevano strutture di vendita nel perseguimento di rapidi profitti, aggiunsero benzina sul fuoco.

Aumento delle pressioni, soprattutto per i venditori di abbigliamento

Nel frattempo, si andava consolidando una nuova dinamica che avrebbe cambiato radicalmente il corso dei centri commerciali.

Negli anni ‘50, quando vennero costruiti i primi store al coperto, lo zoccolo duro degli acquirenti era costituito da casalinghe e madri di famiglia che vivevano nel quartiere. Queste donne facevano compere non solo per loro, ma anche per i propri familiari. Le norme sull’abbigliamento del tempo erano rigorosamente definite: c’erano precisi indumenti per la casa, per le uscite in città durante il giorno, per andare a scuola, per recarsi al lavoro e per le occasioni sociali. Una quota consistente del reddito discrezionale era destinata all’abbigliamento. Non a caso, i grandi magazzini e i centri commerciali regionali dell’epoca si concentravano sui cosiddetti “soft goods”, i prodotti tessili.

Oggi, però,, i codici di abbigliamento sono molto più permissivi in ambito sia lavorativo che sociale. Un guardaroba da lavoro potrebbe richiedere solo uno o due abiti completi, rispetto ai quattro o cinque di pochi anni fa. Ciò che si indossa al mattino potrebbe essere perfettamente adatto per andare a cena fuori la sera. In altre parole, è diminuita la necessità di possedere molteplici guardaroba.

Il rilassamento delle convenzioni sociali ha inciso negativamente sulle vendite di soft goods. A peggiorare la situazione per il settore dell’abbigliamento è stato il calo del tempo disponibile per lo shopping: oggi il 62% delle coppie sposate con figli è infatti composto da due percettori di reddito. Non da ultimo, gli acquisti su catalogo e online rendono lo shopping molto più comodo.

I venditori di prodotti tessili sono stati penalizzati anche dal ristagno dei salari, che ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie a medio reddito. Al tempo stesso, voci di spesa essenziali come l’affitto, le bollette energetiche, le cure mediche, l’assistenza all’infanzia e le rette universitarie sono aumentate molto più rapidamente dell’inflazione complessiva. Ad esempio, tra il 1996 e il 2016 i prezzi dei beni di consumo sono aumentati nell’insieme del 55%, mentre i costi dell’istruzione, dell’assistenza all’infanzia e delle cure mediche sono saliti, rispettivamente, del 200%, 125% e 120%. Ciò ha ridotto drasticamente il reddito discrezionale che le famiglie di classe media possono destinare all’abbigliamento.

Tutti questi fattori hanno contribuito alla chiusura di punti vendita non più produttivi. Nel 2017-2018, mentre i negozi di beni durevoli (”hard goods”) hanno registrato in incremento netto del 18%, i grandi magazzini e i negozi di soft goods hanno assistito ad un calo dell’11% e del 29% rispettivamente (fonte: IHL Group).

La chiusura di negozi è deleteria per i centri situati in aree commerciali piene di tali strutture. La preoccupazione si concentra anzitutto sui centri commerciali di classe C e D, che ricadono nell’ultimo quartile di produttività a livello settoriale e non hanno grandi probabilità di ottenere nuovi fondi salvavita.

Nel declino del settore retail, sopravvivono solo i più forti

Alcuni analisti sono giunti alla conclusione che i commercianti al dettaglio sono destinati ad operare esclusivamente online, o che la superficie di vendita del parco negozi è ormai talmente ridotta da rendere sostenibili solo i più produttivi store di classe A. Ma la storia non finisce qui.

I centri commerciali che sopravvivono sono quelli che si adattano meglio alle esigenze e agli interessi dei consumatori contemporanei, adottano programmi di investimento che migliorano l’esperienza dello shopping con nuovi concetti e ammodernano e riprogettano i propri punti vendita. I segnali di questa evoluzione sono particolarmente visibili nei megastore di classe inferiore alla A.

Inoltre, i centri commerciali stanno riducendo la propria dipendenza dai prodotti di abbigliamento, adattando l’offerta alle attuali tendenze demografiche e abitudini di spesa. Con l’ingresso dei millennials nella fascia di età adulta, caratterizzata da maggiori possibilità di spesa e dall’arrivo dei figli, i proprietari di molti centri commerciali stanno effettuando investimenti nell’ottica di trasformare tali store in un luogo adatto non solo all’acquisto di abbigliamento, ma anche alla ristorazione, all’intrattenimento e ad altre attività, come il fitness e il benessere. I centri che riusciranno a portare a termine questo cambiamento avranno un futuro, in quanto asset funzionali del settore retail.

Si aggiunga a questo che molti commercianti stanno adottando modelli omnicanale (shop online più negozi tradizionali) al posto del solo e-commerce, beneficiando in tal modo di un aumento delle vendite. Consapevoli del circolo virtuoso creato dal mix di negozi fisici e online, questi operatori si stanno muovendo verso una strategia di distribuzione ottimale, con il 30-35% della distribuzione online e il 65-70% di vendite da negozi fisici (oggi la quota dell’online si attesta al 20-25%).

Persino l’ultima ondata di fallimenti nel settore retail ha comportato ristrutturazioni e ridimensionamenti, anziché liquidazioni di aziende. Ciò è quanto accaduto con catene come Forever 21, che ha chiuso solo alcuni punti vendita, ma non tutti. Tali dinamiche si ripercuotono negativamente sui centri di classe più bassa (classe C e D); quelli produttivi (molti dei quali di classe B) continuano invece a beneficiare di una domanda sostenuta degli spazi di vendita.

Nell’attuale di fase di trasformazione del settore dei centri commerciali, molti sono indubbiamente destinati a fallire, ma altri vinceranno la sfida evolutiva per la sopravvivenza dei più forti.

Il dibattito sulla fine dei centri commerciali crea opportunità

Molti investitori che scommettono sul declino del settore retail hanno fatto notizia, assumendo posizioni corte sull’indice CMBX.6, una scommessa che può avere successo solo se i mutui sottostanti registrano perdite significative in tempi rapidi. Noi crediamo che l’assunzione di posizioni corte sul CMBX.6 sia una strategia rischiosa per diversi motivi:

1) L’indice rappresenta meno dello 0,5% dei centri commerciali negli Stati Uniti. Puntare sul suo ribasso per esprimere un giudizio complessivo sulla scomparsa dei grandi centri statunitensi è inefficiente.

2) Gli asset non retail che dominano il CMBX.6 hanno evidenziato una crescita significativa dell’utile di gestione, una notevole rivalutazione degli immobili commerciali (a partire dal 2012) e un numero di prestiti dismessi maggiore del solito. Questi asset non dovrebbero subire perdite significative.

3) Più della metà del 44% di esposizione del CMBX.6 al settore retail non riguarda i soli centri commerciali, ma aree commerciali di altro tipo (power center e strip center). Queste aree sorgono generalmente attorno a negozi di prossimità, come i supermercati e i discount, interessati da un numero di chiusure nettamente minori rispetto ai centri regionali più concentrati sull’abbigliamento. In molti casi, i power center e gli strip center beneficiano di un’espansione del parco negozi.

4) La maggior parte dei prestiti ai centri inclusi nel CMBX.6 sarà probabilmente rimborsata in tutto o in parte alla scadenza. Secondo le nostre stime, otto dei 37 centri commerciali inclusi nell’indice sono essenzialmente strutture fallite che quasi certamente andranno in default e saranno liquidate a valori prossimi al rispettivo valore fondiario. Questa estrema gravità delle perdite, tuttavia, viene applicata da alcuni investitori a tutti i centri commerciali del CMBX.6. In realtà, gli altri soggetti interni all’indice sono attività redditizie, aventi un cash flow sufficiente per far fronte senza difficoltà ai rimborsi annuali di capitale e interessi.

5) Le perdite si registreranno per lo più tra qualche tempo. I servicer specializzati che gestiscono i prestiti in default collaborano con i mutuatari per massimizzare il valore di recupero. Ciò, spesso, significa modificare le condizioni dei prestiti. Anche in caso di liquidazione vera e propria, il processo può durare molti mesi.

In quanto investitori, è facile per ognuno di noi prestare orecchio al clamore suscitato da un titolo di giornale. Le operazioni migliori, tuttavia, non si trovano in una frase a effetto. A nostro avviso, la scomparsa dei centri commerciali americani rappresenta una storia interessante, ma non una valida strategia d’investimento.

Brian Phillips è Director of Commercial Real Estate Credit Research presso AllianceBernstein.

Le opinioni espresse nel presente documento non costituiscono ricerca, consulenza di investimento o raccomandazioni di acquisto o di vendita e non rappresentano necessariamente le opinioni di tutti i team di gestione di AB.

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