Il coronavirus mette alla prova il progetto europeo

30 aprile 2020
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Il coronavirus ha messo in luce le falle dell’Unione Europea (UE). Per ora gli acquisti di obbligazioni da parte della Banca Centrale Europea (BCE) dovrebbero mantenere la situazione sotto controllo, ma i governi nazionali dovranno prendere decisioni difficili per garantire il futuro dell’UE.

Spesso le incoerenze interne dell’UE rimangono in secondo piano quando il contesto economico e politico è positivo, ma tornano nuovamente alla ribalta quando le prospettive si fanno più fosche. L’ultimo grande esempio è stata la crisi del debito sovrano di quasi un decennio fa. Ora, all’inizio di un nuovo decennio, il coronavirus (ufficialmente COVID19) ha provocato un’altra potenziale crisi esistenziale.

Larisposta impressionante cela problematiche fondamentali

La rapidità e l’entità della risposta europea al COVID-19 sono state impressionanti. Gli stimoli fiscali hanno raggiunto il 3% del PIL dell’Eurozona (e sono in aumento), e un ulteriore 16% è stato promesso sotto forma di garanzie sui prestiti e differimenti d’imposta. Tali misure si aggiungono alle reti di sicurezza esistenti, o stabilizzatori automatici, che nella maggior parte dei Paesi europei hanno un’ampia portata, si pensi infatti che, anche prima della crisi, la Germania e l’Italia disponevano di programmi per sovvenzionare i redditi dei lavoratori in congedo.

Questo sostegno viene fornito dai governi nazionali, ma è sostenuto a livello comunitario da una sospensione delle regole fiscali dell’Eurozona e da un pacchetto di sostegno alla liquidità pari a 540 miliardi di euro (il 4,5% del PIL). Quest’ultimo comprende uno strumento che consente ai governi di prendere in prestito fino al 2% della produzione nazionale dal Meccanismo europeo di stabilità (MES) con condizioni estremamente limitate (ovvero il denaro deve essere speso direttamente o indirettamente per la sanità). Da parte sua la BCE ha promesso un aumento degli acquisti di asset pari ad almeno 870 miliardi di euro (il 7% del PIL) e, se necessario, di utilizzare tali acquisti in modo più flessibile per sostenere gli Stati più deboli dell’Eurozona.

Nonostante questi sforzi, l’epidemia di COVID-19 ha messo in luce profonde lacune nell’architettura politica e istituzionale dell’Eurozona. Dal punto di vista politico ci ha ricordato che spesso la solidarietà europea risulta superficiale. Sul piano istituzionale ha evidenziato l’assenza di un’autorità fiscale centralizzata con poteri di raccolta delle entrate che le permettano di affrontare gli shock comuni e il fatto che i singoli Paesi dell’Eurozona non hanno prestatori di ultima istanza (nonostante i coraggiosi tentativi della BCE di nascondere tali crepe).

In breve, l’unione monetaria europea non è ancora un’unione politica e/o fiscale, il che significa che la regione verrà sempre messa sotto stress quando l’economia globale si troverà in difficoltà e le condizioni di finanziamento cominceranno a deteriorarsi e, indipendentemente dai meriti e dai torti del comportamento passato di ogni Paese, questo stress sarà sempre avvertito in modo sproporzionato dalle nazioni debitrici (dove, naturalmente, le pressioni populiste sono già in aumento).

L’UE può sostenere uno slancio positivo?

Gli sforzi per affrontare queste carenze e orchestrare una risposta comune al COVID-19 sono stati finora deludenti. La settimana scorsa i leader europei hanno approvato le misure di sostegno alla liquidità già concordate dai ministri delle finanze, oltre a convenire sulla necessità di un recovery fund per ricostruire le economie nazionali una volta superata la crisi della sanità pubblica. Ma non hanno trovato un accordo sulla questione chiave, ossia come fornire l’assistenza finanziaria: sotto forma di prestiti (che graverebbero ulteriormente sui bilanci nazionali) o di sovvenzioni (che non graverebbero)? A un decennio di distanza dalla crisi del debito sovrano, l’Eurozona rimane profondamente divisa su questa questione chiave.

Data la natura controversa del dibattito, è probabile che ci vorrà del tempo prima che i leader europei si accordino sulle modalità del recovery fund. Qualunque sia l’esito, tuttavia, è altamente improbabile che i Paesi creditori del Nord Europa accettino di mutualizzare il debito nella misura necessaria a rifinanziare la ricostruzione post-crisi dell’Europa meridionale. Sicuramente la Comunità finanzierà una qualche forma di assistenza, ma la maggior parte del pesosarà a carico dei governi nazionali, naturalmente facilitati dagli acquisti di obbligazioni della BCE.

In definitiva, la BCE non può spingersi all’infinito laddove i governi non osano andare, ma è improbabile che tali limiti vengano presto raggiunti, e nel frattempo l’istituto di emissione continuerà a esercitare una forte influenza sulla solvibilità dei Paesi dell’Eurozona fortemente indebitati come l’Italia.

I governi creditori e debitori devono trovare un terreno comune

Prima dell’epidemia di coronavirus, l’Italia presentava il secondo più alto debito pubblico in Europa (135% del PIL) e scarseprospettive di crescita a lungo termine. Date le stime di contrazione pari al 10% nel 2020 e il probabile aumento del disavanzo di bilancio, il debito pubblico italiano potrebbe arrivare a toccare il 160% del PIL, percentuale superiore a quella del debito greco nel 2009. Non sorprende che il governo italiano tema che un qualsiasi suo tentativo di stimolo fiscale l’anno prossimo ne minerebbe ulteriormente la solvibilità (ovviamente l’Italia sarebbe già insolvente se non fosse per il sostegno della BCE).

I Paesi creditori sono, naturalmente, diffidenti nei confronti di qualsiasi passo che possa portare alla mutualizzazione del debito su larga scala, ma non sono indifferenti alla situazione di Paesi come l’Italia e si rendono conto che la mancanza di solidarietà, soprattutto in un momento in cui tutti i Paesi dell’Eurozona devono affrontare uno shock esterno senza precedenti, potrebbe essere profondamente dannosa (forse fatale) per la percezione che le nazioni debitrici hanno dell’UE.

La principale vittima dell’ultimo scontro tra i governi dell’Eurozona debitori e creditori è stato il rendimento dei titoli di Stato italiani, che nelle ultime settimane ha subito un forte aumento, il che ha indotto il governo italiano ad ammorbidire la sua opposizione al prestito del MES. Pur essendo uno strumento troppo limitato per poter risolvere la situazione, il MES è simbolicamente importante poiché potrebbe (almeno in teoria) indurre all’acquisto di obbligazioni senza vincoli attraverso il programma di operazioni definitive monetarie (OMT) della BCE.

Questo sottolinea un punto chiave: fino a quando l’Europa non compirà un passo decisivo verso l’unione fiscale, l’onere di tenere insieme l’Eurozona continuerà a gravare sulle spalle della BCE, che continua a estendere il suo mandato fino al punto di rottura assoluto.

Poco più di un mese fa la BCE ha offerto una nuova versione del suo “whatever it takes” promettendo di “valutare ogni azione e contingenza per sostenere l’economia” e aggiungendo che “non tollererà ostacoli a un’efficace trasmissione della politica monetaria in tutte le giurisdizioni dell’Eurozona”. Per il momento questo dovrebbe essere sufficiente a tenere sotto controllo i rendimenti dei titoli italiani, ma dubitiamo che ciò sia sostenibile a lungo termine. In definitiva, le decisioni che la BCE sta anticipando devono essere prese dai governi democraticamente eletti.

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